Ho trascorso gli anni della mia fanciullezza su una banchina
in un piccolo porticciolo, insieme ai pescatori e alle loro cose. Ogni cosa
aveva un colore, ogni cosa aveva un odore particolare dalle mille sfumature.
Osservavo incantato i lenti movimenti dei pescatori che come
personaggi di un presepe erano sempre li allo stesso posto, chi riammagliava le
reti, chi eseguiva lavori sulla barca, chi metteva in ordine le coffe.
Era un brulicare di operosità e di attività tutte dedicate al mare e alla pesca,
anche le donne dei pescatori partecipavano a riassettare le reti, tutto il borgo
era attivo.
Per un bambino tutto poteva essere un gioco, non esistevano
playstation e televisioni, non esisteva la noia, si andava a scuola con i
pantaloncini corti e i sandaletti. Ci si scambiava ami e galleggianti, piccole
canne da pesca costruite con la parte anteriore dei finocchietti, lenzette e
piccoli piombi, tutto materiale autocostruito, recuperato o addirittura
inventato.
Ogni piccolo bambino aveva il suo sogno che si chiamava mare.
Dopo i compiti si scendeva in banchina a giocare, il gioco era aiutare i
pescatori in tanti piccoli lavoretti, solo è sempre con la speranza che qualcuno
di loro ti dicesse: uagliò iamm a ghizà a coffa
(ragazzo andiamo a recuperare la coffa),
oppure iamm aizà a rezza
(andiamo ad alzare la rete).
Una cosa del genere per noi bambini era una specie di investitura cardinalizia,
solenne e grave. Si fidavano di te, ti avrebbero portato a bordo, eri ormai uno
di loro.
Nessun padre si preoccupava per una cosa del genere, la migliore di tutte,
seconda solo alla scuola, il mare, una vera e propria scuola di vita.
Non c’era una lira ma tutto era solenne e dignitoso, pulito e
onesto, tutti conoscevano tutti, tutti aiutavano tutti e proprio in una di
queste occasioni conobbi Gennaro, un bambino magro come un chiodo e con gli
occhiali, il nipote del prete.
In realtà lo conoscevo da sempre ma non ci eravamo mai parlati, non era mai
capitato che avessimo giocato insieme. Un pescatore ci disse:
uagliù, stennite e allistate a coffa ncopp’arena ca po
venghje arravuglià int’a cascetta (ragazzi,
stendete bene la coffa sulla spiaggia che poi vengo io a sistemarla nuovamente
nel cassettino), io e Gennaro ci guardammo negli occhi, fieri ma
consapevoli di esserci imbarcati in una faccenda immane.
Guardammo l’enorme cassetta contenete una ormai matassa di
cordino e iniziammo a stendere e snodare. Passammo due giorni a sciogliere
l’intricata matassa senza che nessuno ci dicesse niente e alla fine del lavoro,
visto che nessuno era più venuto andammo noi dal pescatore a dirgli che il
lavoro era finito.
Ci guardò e ci disse: se tenivo nata coffa ve levavo a
sott’e pier pe nati due juorne (se tenevo
un’altra coffa vi tenevo impegnati altri due giorni). Delusi e
amareggiati ci rendemmo conto che poi alla fine davamo pure fastidio con le
nostre continue domande, ci rassegnammo ad essere stati presi per i fondelli e
amarezza ancora più grande e che il tutto era avvenuto con l’autorizzazione di
nonno Turiello.
Fummo però ripagati alla grande quando il nonno ci portò a
pesca di ricciole usando come esca l’aguglia viva. Forse fu proprio quello il
giorno in cui mi accorsi che nelle mie vene cominciava a scorrere un po’ di
acqua di mare.
Ricordo ancora come fosse adesso, il filaccione appeso alla
poppa del gozzo con le aguglie, altro che vasca del vivo. I piombi guardiani non
erano altro che piccole pietre tenute con un pezzetto di filo di ferro.
Dopo due o tre uscite fummo incaricati di procurare le aguglie e continuammo per
anni a fare le stesse cose, al nostro segnale nonno Turiello si faceva
accompagnare fuori il porticciolo, saliva a bordo e iniziava a pescare, io e
Gennaro stavamo immobili a prua con gli occhi sgranati ad aspettare l’abboccata.
Ma tutta l’attenzione era mirata a carpire tutti i segreti, dall’innesco ai
movimenti, anche quelli scaramantici, tutto costituiva sapere. Immancabilmente
la ricciola arrivava a bordo senza che nonno Turiello si scomponesse più di
tanto e noi capissimo qualcosa, con una maestria incredibile portava la ricciola
sotto la barca in tre minuti, un colpo di raffio e il tonfo del pesce sul paiolo
della barca.
Verso i vent’anni ormai eravamo alle prese con i problemi dei
più grandi, difatti stessa banchina, stesso molo e stesso Gennaro, impegnati in
lavoretti più difficili, pitturare le barche e preparare le battute di pesca in
maniera scientifica quasi fosse un lavoro, non aspettavamo più che qualcuno ci
portasse a pescare, eravamo noi che decidevamo di andare a pescare, una occhiata
a nonno Turiello che senza battere ciglio e solo con lo sguardo ti faceva capire
che era il momento propizio.
Che goduria al ritorno leggere negli occhi dei pescatori
l’orgoglio dei maestri nei confronti degli allievi. Chiaramente il gioco era
quello di nascondere l’adrenalina di ogni cattura, volevamo essere come loro ma
non ci riuscivamo, era troppa la gioia per le catture.
A distanza di quarant’anni, stesso molo, stesso porticciolo,
stesso Gennaro, ormai mio fidato pilota in migliaia di battute di pesca,
qualcuno non c’è più ma noi lo vediamo e lo sentiamo lo stesso, chino sulla
montagnola di reti a lavorare.
Certo tutto si è evoluto, tranne le calde pietre di basalto
del pavimento del molo, riconosco ancora le fenditure e le forme come ieri anche
oggi. Tutto si è evoluto, anche gli anelli e le bitte del molo sono più logore,
solo l’odore è rimasto sempre lo stesso, una miscela olfattiva composta dal
salmastro, dalla pietra bagnata, dalle antivegetative al sole e dalle reti messe
ad asciugare, il legno bagnato dei gozzi, e le cime bisunte da anni di duro
lavoro.
Tutto confluisce in un unico aroma, un odore per me irresistibile che riesco a
percepire anche da lontano, un odore che una volta che ti è entrato nel cervello
non lo dimentichi più.
L’odore del mare ti coinvolge e ti
attira e oggi, attraverso i racconti cerco di trasmettere alle persone l’amore
profondo per il mare e il rispetto che gli è dovuto, quasi a restituirgli in un
compito arduo e impossibile, quanto ricevuto.
|